Dal 1799 all'unità
La crisi dell'arte della lana, l'evoluzione in senso borghese del ceto dirigente e la penetrazione dei nuovi ideali illuministici e riformatori furono gli elementi che, in diversa misura e con contrastanti effetti, cooperarono nel determinare l'esplosione rivoluzionaria e controrivoluzionaria del 1799. Il collante a questi disparati e contraddittori fermenti fu offerto da un lato dall'accentuarsi dell'insofferenza verso il dominio feudale dei Caracciolo (ritenuti tra l'altro responsabili, del tutto a torto, del declino dell'arte della lana), e dall'altro dalla crisi istituzionale dell'Università, ormai inadeguata, nelle sue invecchiate strutture, ad assicurare l'equilibrio tra i ceti cittadini. Alla fine di gennaio del '99, alla notizia dell'entrata dei francesi in Napoli e della proclamazione della repubblica, il ristretto ma attivo nucleo dei "giacobini" atripaldesi provvide a dichiarare la decadenza del regime borbonico e ad innalzare, tra feste e luminarie, l'albero della libertà. Un folto corteo popolare, capeggiato dai repubblicani, percorse le vie cittadine al grido di "Viva la libertà! Mora il tiranno!". Carlo M. del Re, esponente di una delle primarie famiglie atripaldesi, designato a presidente della municipalità repubblicana, chiuse la cerimonia pronunziando un enfatico discorso contro i Borboni e ad esaltazione del nuovo regime. A succedere di lì a poco al del Re, inviato in missione a Napoli, fu un intellettuale giacobino di sicura fede repubblicana, Angelo M. Rapolla, già compromesso nella causa dei "rei di Stato" del 1794. Tra i suoi più stretti collaboratori furono Nicola Cennamo ed il canonico Giuseppe Ronca, che predicava instancabilmente, dal pergamo e sulle piazze, la perfetta concordanza tra libertà repubblicana e morale evangelica. All'ex capitano borbonico Nicola Romano fu invece affidato il comando delle milizie cittadine. Il regime repubblicano, che raccoglieva consensi nell'elite della borghesia cittadina, tentò di qualificarsi essenzialmente per la sua azione antifeudale. Un significativo successo fu ottenuto l'8 germile (= 28 marzo) 1799, quando il governo provvisorio rispose alla municipalità atripaldese che, pur in attesa delPemananda legge eversiva della feudalità, tutti i diritti proibitivi esatti dal feudatario erano stati "tolti col fatto" colla proclamazione della repubblica, per cui d'ora in poi il "cittadino" Giovanni Caracciolo, ex duca di Atripalda, era tenuto ad astenersi da ogni indebita esazione. Ma la reazione borbonica e sanfedista montava intanto tutt'intorno, minacciando di sommergere la piccola isola repubblicana costituita da Atripalda. Ancora a fine maggio un tentativo degli insorti filoborbonici d'impadronirsi della città fu vittoriosamente respinto dalla milizia civica, ma pochi giorni più tardi le bande sanfediste riuscirono ad entrare in Atripalda, abbandonandosi al saccheggio delle case dei giacobini. Un notevole ruolo in queste vicende fu svolto, da parte reazionaria, da un triste figuro, Michele Apostolico di Castel San Giorgio, mastrodatti (= cancelliere) dell'Udienza di Montefusco, distaccato ad Atripalda sin dall'anno precedente. Questi, oltre ad organizzare una "massa" sanfedista, tese un mortale agguato al baroncino Mattioli di Gesualdo e guidò, dopo la vittoria delle forze borboniche, l'arresto dei municipalisti atripaldesi Carlo M. del Re, Nicola Cennamo e Giuseppe Ronca, contro i quali presentò velenose denunce politiche. Costoro, in effetti, vennero condannati a morte dal Visitatore Ludovici (8 gennaio 1800), ma la sentenza, riesaminata dalla Giunta di Stato, venne poi commutata nell'esilio a vita. Non sfuggì invece alla vendetta borbonica il giovane avvocato atripaldese Giuseppe Cammarota, giustiziato a Napoli (4 gennaio 1800) per la sua azione in difesa della repubblica. Né a questo si limitò la reazione borbonica, che colpi duramente anche gli esponenti minori della municipalità repubblicana. A dieci anni di esilio vennero infatti condannati il sacerdote Mattia Di Donato, fratello del barone Francesco, ed Ippolisto de Laurenzio; a cinque, il canonico Giuseppe Giffonelli, Nicola e Vincenzo Cennamo, Pier Luigi Ciccone e Tommaso de Rita; a tre anni, Domenico Laurenzana. Espulsi dal regno a tempo indeterminato furono invece il notaio Giuseppe A. Ciccone, Raffaele Ronca, Raffaele Limongelli, Onofrio La Monica, Ippolisto Capaldo e Sabino di Lauro. Ad esulare spontaneamente per sfuggire la vendetta regia furono Luigi Sgambati, Gennaro e Saverio di Sapia. Occupato nuovamente il regno dai francesi nel 1806, iniziò anche per Atripalda un periodo di fecondo, anche se convulso e contrastato, progresso. Alla guida del Comune furono posti i superstiti del '99, da Carlo M. del Re a Vincenzo Cennamo ed Angelo M. Rapolla, cioè l'elite del vecchio giacobismo massonico ed antiborbonico. L'invocata abolizione della feudalità (2 agosto 1806) non recò in realtà gli effetti sperati, che l'eliminazione dei diritti proibitivi non valse a rianimare l'ormai agonizzante arte della lana, ma le altre attività manifatturiere vennero stimolate dal nuovo regime in conseguenza del blocco continentale. Nel soppresso monastero agostiniano di San Nicola da Tolentino fu inoltre installata (1813) una fabbrica di salnitro. La soppressione, nel 1809, dei tre monasteri degli alcantarini, degli agostiniani e dei domenicani, antichi e radicati nelle tradizioni popolari, se valse ad incrementare la proprietà borghese, produsse però malcontento e disorientamento nella massa della popolazione, privata delle opere caritatevoli ed assistenziali esercitate dai monaci. Un autentico flagello fu poi costituito dal brigantaggio, ad opera soprattutto del famigerato "Laurenziello", che desolò sino al 1811 le campagne e rese insicuri i traffici ed il commercio. La restaurazione borbonica (1815) non destò entusiasmo ma accentuò le preoccupazioni ed i timori della parte più avanzata della borghesia, che aspirava a nuovi ordinamenti civili. Di qui il diffondersi anche in Atripalda della Carboneria. Ancora una volta l'iniziativa toccò ad alcuni veterani del '99, come il canonico Giuseppe Ronca, nominato nel Decennio insegnante delle neo-istituite scuole pubbliche, e Raffaele Limongellii; La sera di domenica 9 luglio 1820 un pubblico banchetto di sessanta "settari" atripaldesi sulla piazza del Mercato festeggiò clamorosamente il successo del moto insurrezionale e la concessione della Costituzione. Le fratture non tardarono però a manifestarsi proprio nel momento in cui la Carboneria diveniva la forza politica egemone, come è testimoniato dalla proliferazione, dopo il luglio 1820, di più "vendite" carbonare nello stesso centro. Nella sola Atripalda se ne costituirono tre ("I figli di Attilio Regolo"; "Valore Irpino"; "I seguaci di Scevola sul Sabato"), l'ultima soltanto delle quali, che era la maggiore, contava 120 aderenti. Al breve periodo costituzionale posero termine, il 28 marzo 1821, gli austriaci, che stanziarono in Atripalda un distaccamento di 300 soldati. Si scatenò allora la reazione. Il canonico Ronca, arrestato in maggio e poi relegato a Pantelleria, rientrò in patria soltanto nel marzo 1831, graziato da Ferdinando II. Raffaele Limongelli, "maestro" della vendita "Valore Irpino", arrestato il 5 giugno 1821 ed espulso dal regno, si spense a Terracina il 23 luglio 1822. Il tenente dei militi Angelo De Lauri, che aveva preso parte al moto di Monteforte, arrestato e relegato alla Favignana, fu graziato nel dicembre del 1830. Ad esulare furono invece costretti i cugini Alfonso e Mario Belli, rispettivamente capitano e tenente dei militi. Destituiti dalle loro cariche furono altresì il primo eletto (= assessore) del Comune Modestino De Lauri, il secondo eletto Antonio Titomanlio ed i decurioni (= consiglieri) Domenico Scarpa, Pasquale de Laurentis e Gaetano Cammarota. Sorveglianza e persecuzioni colpirono gli esponenti minori del movimento carbonaro sino all'avvento al trono di Ferdinando II (1830), quando la decennale cappa plumbea dell'oppressione poliziesca che aveva sino ad allora gravato sul regno parve parzialmente dissolversi. Nel nuovo clima dell'età di Ferdinando II si colloca non a caso la rifioritura intellettuale e culturale del Mezzogiorno, all'insegna del pensiero romantico, moderato e neoguelfo, uno dei cui più significativi esponenti fu l'atripaldese Raffaele Masi (1817-1876). Al contrario che nel 1820-21, nel 1848 la partecipazione di Atripalda non fu complessivamente cospicua, anche se il Masi venne eletto al Parlamento e l'appena sedicenne Alfonso Dinacci (1832-1881) partì volontario per i campi di battaglia del Lombardo-Veneto. Buona prova di sé diede pure, come sottintendente costituzionale di Vallo della Lucania, Giuseppe Belli (1817-1877), figlio di Alfonso, l'esule del 1821, che venne destituito nella reazione. Il grosso della popolazione, compresa la borghesia, ammaestrata dalle tristi esperienze del 1799 e del 1821, volle invece tenersi lontana e quasi appartata dalle vicende politiche, astenendosi dal prendere posizione in un senso o nell'altro.
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